Nato a Grenoble il 25 luglio del 1921 da una famiglia agiata, Terray trascorre l’infanzia sulle montagne di Vercors. Lascia presto gli studi per dedicarsi allo sci agonistico, disciplina in cui raggiunge grandi risultati. Durante la guerra prende parte alla Resistenza; in seguito, entrerà a far parte della Compagnia delle Guide di Chamonix. Compie le prime ascensioni sin da giovanissimo; con i compagni Gaston Rébuffat e Louis Lachenal compirà imprese rimaste nella storia dell’alpinismo. Si ricordano, tra queste la seconda ascensione della parete nord dell’Eiger (1947), la conquista del primo 8.000, l’Annapurna (1950), le prime ascensioni di Fitz Roy (1952), Makalu (1955), Chacraraju (1956), Jannu (1962). Muove il 23 settembre del 1965 con la giovane guida Marc Martinetti, durante una scalata vicino a Grenoble. Ha scritto: Les conquérants de l'inutile: des Alpes à l'Annapurna, Paris, Gallimard, 1961; con Jean Franco, Bataille pour le Jannu, Paris, Gallimard, 1965.
Titolo: Les conquérants de l’inutile. Des Alpes à l’Annapurna
Luogo di edizione: Paris
Casa editrice: Gallimard
Anno di pubblicazione: 1961
Edizione italiana di riferimento: I conquistatori dell’inutile. Dalle Alpi all’Annapurna, trad. Andrea Gobetti, Milano, Hoepli, 2017
Il libro si apre con il ricordo dell’uomo maturo, giunto a grandi risultati e notorietà, che guarda al momento della scoperta della montagna nella sua giovinezza, prima con le arrampicate sulle piccole pareti calcaree che circondano il parco della villa di famiglia – «Questa natura selvaggia era il terreno ideale dei sogni di un bambino innamorato della libertà e della dimensione fantastica» (p. 7) –, poi con le prime vere ascensioni di nascosto dai genitori, i quali avrebbero voluto incanalare il figlio verso il successo sociale e lavorativo allontanandolo da pratiche sportive rischiose che non comportano vantaggi economici. Le ragioni di quella gratuità dell’ascensione, di quell’assenza di utilità che titolerà il volume segnando generazioni di alpinisti – a cominciare dall’immaginario dei giovani del Sessantotto, così come sottolinea Marco Albino Ferrari nell’introduzione all’edizione Hoepli –, si chiarisce già da queste prime pagine in cui l’inutilità si configura immediatamente come l’esatto contrario dell’utile inteso come valore cardine della cultura borghese in cui cresce il giovane Lionel. Per lui la scalata è invece, sin da subito, strumento di allontanamento dalla «bassezza, la volgarità e la monotonia del mondo», riflesso dell’aspirazione a una «vita più nobile, più libera e generosa» (p. 9). Il racconto procede a partire dagli anni del severo collegio in cui il padre, «accecato dal suo orgoglio di grande borghese intellettuale» (p. 16), lo costringe a rimanere per continuare gli studi e da cui Terray riesce a farsi espellere sparando tre colpi da una pistola a salve nel cuore della notte. In seguito, viene trasferito in un altro collegio, di più larghe vedute, dove può proseguire nella carriera sciistica precedentemente intrapresa, e ottiene finalmente dal padre il permesso di scalare. Dopo la separazione dei genitori viene affidato alla madre, presso la quale si trova a vivere un periodo di serenità: in questi anni può dedicarsi alla passione per la lettura (legge Balzac, Baudelaire, Proust) che poi lo accompagnerà anche in futuro. Si unisce in seguito al gruppo di volontari di Jeunesse et Montagna (JM), dove incontra Gaston Rébuffat, con il quale stringe una profonda amicizia tra le montagne che li vedono scalare insieme. Rébuffat aiuterà Terray anche nel mandare avanti, benché con scarsi risultati, una piccola azienda agricola a Les Houches avviata dopo l’esperienza di JM, impresa mal sopportata dalla moglie – sposata da Terray nel 1942 – che sempre sosterrà, al contrario, la sua carriera da alpinista. Nonostante i sacrifici richiesti, l’attività di coltivatore non lo distoglie dalle scalate, è questo, anzi, il momento in cui l’alpinista passa «dalle scalate classiche [alle] ascensioni eccezionali» (p. 41), tra cui la prima ascensione del versante nord-est del Col du Caïman, compiuta con Rébuffat. Il racconto dell’impresa è lasciato a uno scritto risalente al periodo dell’ascensione, che qui Terray riporta in forma appena riveduta e utilizza come spunto per una riflessione sui rischi dell’alpinismo, principalmente legati all’inesperienza e all’incoscienza, e per ricordare la sua caduta giovanile sulle Calanques: «Esporsi ai pericoli non è lo scopo del gioco, ma fa parte del gioco» (p. 52). Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, Terray si unisce alla Resistenza francese ed entra a far parte della Compagnia Stéphane, periodo che ricorda come traumatico, tra i combattimenti e le detonazioni sulle rocce. Il 1945 è l’anno in cui, scrive, «L’alpinismo, fino a quel momento interesse dominante di un esistenza che cercava ancora la sua strada, divenne [...] tutta la mia vita: la mia passione, il mio tormento, il mio lavoro» (p. 68). Poco dopo prenderà infatti il brevetto di guida con il quale entrerà nella Compagnie des Guide di Chamonix. Nello stesso ’45 conosce Louis Lachenal, con il quale comincerà a progettare la scalata dello sperone Walker, un “sogno” per Terray. Il racconto della scalata dello sperone insiste sulle attrezzature – a cominciare dagli stivaletti approntati apposta da Lachenal, «di mezzo tra la pedula e lo scarpone [...] simili a quelle che tutti gli arrampicatori portano oggi» (p. 74) –, sui passaggi più difficili, così come sulla sensazione di invincibilità che lo prende a tratti, fino al culmine, quando il raggiungimento della cima segna invece un momento di delusione: «mesi di preparazione e di fantasticherie trovano la loro realizzazione su questa cresta anonima che il mio cuore accoglie quasi con indifferenza. [...] L’avventura è finita. Una pagina della mia vita è stata girata. Un po’ titubante mi allontano avvolto nella nebbia» (p. 82). A ogni cima raggiunta, quel che conta, sembra infatti essere quella successiva, la nuova avventura che attende l’alpinista. Dopo la Walker è la volta della parete nord dell’Eiger, per la quale Terray e Lachenal, nel luglio del 1947, si trovano in concorrenza con altre agguerrite cordate. Saranno i secondi ad arrivare in vetta, ma la loro impresa susciterà, con grande stupore di Terray, una grande attenzione da parte della stampa. Il capitolo dedicato all’Eiger è uno dei più densi di riflessioni intorno al senso dell’alpinismo, di dubbi sulle motivazioni che spingono a un’impresa così rischiosa che rimangono senza risposta, se non nelle sensazioni, sublimi e tragiche insieme, che accompagnano l’alpinista stesso. L’Eiger diviene anche il momento di una riflessione sugli effetti della modernità, sulla civiltà delle macchine intesa come nuova barbarie, che si può vedere a distanza dalle pareti del monte ma che, pure, riesce a raggiungere quei territori così impervi, come risulta chiaro nel momento in cui la cordata si imbatte nella ferraglia avanzata dalla costruzione della ferrovia sullo Jungfrau. Con un salto temporale il racconto si sposta nel 1957, quando l’Eiger diviene lo scenario della grande e ben nota operazione di soccorso che impegna, con Terray, alpinisti di tutte le nazionalità, missione apparsa disperata, se non insensata, e che poi sarà fortemente criticata, ma che porterà al salvataggio di Claudio Corti: «A dispetto della ragione, attraverso la potenza delle forze generose che, in questo secolo d’acciaio, sussistono ancora nel cuore dell’uomo, una vita sarà salvata» (p. 124). Terray torna poi al periodo subito successivo alla prima ripetizione della nord dell’Eiger, quando si dedicherà al mestiere di guida, per riflettere sull’etica del mestiere, condotto all’insegna della pazienza e del sacrificio nei confronti del cliente, e racconta come alcuni suoi clienti, De Booy e Egeler, siano poi diventati compagni di scalata: saranno loro a condurlo sulle Ande. Dopo un’appendice fotografica, il resto del volume è dedicato alle esperienze sugli 8.000, in Asia. La fascinazione per le montagne himalayane – «Favolose montagne, così gigantesche, così selvagge da essere destinate a restare per sempre un regno dal quale l'uomo è bandito. Avrei dunque potuto entrare in quel paradiso dove tutto era ancora grande, bello e puro» (p. 150) – riflette il gusto letterario attraverso cui l’autore filtra la sua esperienza: non a caso queste parti del volume sono puntellate da riferimenti costanti alla letteratura d’avventura, che la realtà sembra invero superare. Il racconto della spedizione sull’Annapurna nel 1950, capitanata da Maurice Herzog e vissuta di nuovo insieme a Lachenal e Rébuffat, occupa quattro capitoli, dal viaggio per arrivare alla discesa, con Terray e Rébuffat che aiutano Lachenal e Herzog, gravemente provati dal raggiungimento della vetta, fino al Ritorno alla vita, come titola l’ultimo dei quattro capitoli. Le parti relative alla spedizione himalayana si infittiscono, inoltre, di dettagli sulle tecniche impiegate: se in giovinezza tende a rifiutare l’arrampicata artificiale, pur senza pregiudizi, la spedizione sugli 8.000 richiede ben altro impiego di mezzi, fino all’uso di droghe dopanti. Le ultime battute del libro, più cronachistiche dei capitoli precedenti, sono invece dedicate alle imprese più recenti, il Fitz Roy e il Chacraraju. Sono molte, negli ultimi capitoli, le menzioni ai film realizzati per documentare le imprese alpinistiche – prima dai compagni di viaggio, più tardi dallo stesso Terray –, in cui si manifesta soprattutto l’attenzione per gli aspetti antropologici dei luoghi esplorati, tipica di buona parte della letteratura dell’alpinismo. Scritto con un linguaggio molto comunicativo ma mai scarno, il libro di Terray è stato sin da principio apprezzato per la qualità della scrittura e per quel gusto letterario che abbiamo notato. Si evidenzia un utilizzo equilibrato di metafore e strategie retoriche che si oppone alle tradizionali formule altisonanti della letteratura dell’alpinismo precedente e una costruzione narrativa attenta all’alternanza tra analessi e racconto lineare.
[Giovanna Lo Monaco, 07/11/2025]
Ultimo aggiornamento
26.11.2025