Nasce a Bonate di Sotto nel 1961, nel bergamasco; è oggi una delle maggiori alpiniste a livello mondiale ed è stata la seconda donna a scalare tutti gli 8.000 in stile alpino. Inizia a scalare intorno ai 17 anni; a 19 incontra Romano Benet, che diventerà suo marito e inseparabile compagno di cordata. La loro carriera alpinistica inizia sulle Alpi Giulie, dove compiono la prima invernale del Pilastro Piussi al Piccolo Mangart di Coritenza (1987) e la prima invernale alla Cengia degli Dei al Gruppo dello Jôf Fuârt (2001). Nel 1998 conquistano il loro primo ottomila in stile alpino, il Nanga Parbat; Meroi è la prima italiana in vetta. Seguiranno lo Shisha Pangma e il Cho Oyu (1999). Nel 2003 è la prima donna al mondo a compiere la traversata di tre ottomila, Gasherbrum I, Gasherbrum II e Broad Peak, impresa che fa della coppia la seconda cordata nella storia a realizzare l’impresa. Nel 2004 scalano il Lhotse e nel 2006 Meroi è la prima donna italiana in cima al K2. Seguono il Dhaulagiri (2006) e l’Everest (2007). Nel 2009 Meroi è in corsa con altre due alpiniste per diventare la prima donna ad aver scalato i quattordici ottomila della Terra, ma, in ascensione sul Kangchendzonga, Benet accusa gravi malori e la moglie decide di tornare a valle con lui abbandonando la corsa per il primato: seguono, per Benet, anni di grave malattia. Dopo la guarigione i due tornano a scalare insieme: il Kangchendzonga (2014), il Makalu (2016) e il loro ultimo 8.000, l’Annapurna (2017), qui primi in assoluto a completare la sfida in coppia. Nel 2005 l’amico Erri De Luca le dedica il suo Sulla traccia di Nives (Mondadori). Ha scritto: Non ti farò aspettare, Milano, Rizzoli, 2015; Il volo del corvo timido. L'Annapurna e una scalata d'altri tempi, Milano, Rizzoli, 2019; con Vito Mancuso, Sinai. La montagna sacra raccontata da due testimoni d'eccezione, con fotografie di Romano Benet, Milano, Rizzoli, 2017.
Titolo: Non ti farò aspettare. Tre volte sul Kangchendzonga, la storia di noi due raccontata da me
Luogo di edizione: Milano
Casa editrice: Rizzoli
Anno di pubblicazione: 2015
Nell’edizione Rizzoli 2019 – da cui si cita – il volume si apre con un’aggiunta rispetto all’edizione precedente, l’introduzione Alpi Giulie, storie di montagne nascoste, dedicato ai luoghi in cui è iniziata la carriera alpinistica di Meroi e del marito, Romano Benet, con il quale l’alpinista scalerà in cordata per tutta la sua carriera. La storia di Meroi è infatti, come anticipa il titolo del libro, la storia di una coppia unita nella vita come nella scalata: «Noi due non scaliamo le montagne solo per passione alpinistica, ma anche per portare lassù questa nostra alleanza. [...] La nostra è un’unione forgiata nelle bufere e nell’ipossia d’alta quota, fatta di silenzi e di gesti condivisi» (p. 157). Dopo un brevissimo preambolo inizia il racconto del tentativo di scalata al Kangchendzonga, terzo 8.000 della Terra, nel 2009, a partire dal viaggio d’andata verso il Nepal; l’obiettivo è inizialmente di scalare sia il Kangchendzonga che l’Annapurna, avvicinarsi così a completare la scalata di tutti i quattordici 8.000 in stile alpino. Meroi insiste sin da subito sull’importanza dell’impresa per lei, in corsa con altre due donne per il primato mondiale femminile, sottolineando da un lato la rilevanza di un traguardo del genere – «è una tappa importante perché su quelle vette esiste ancora uno degli ultimi baluardi maschili, e quando l’ultimo passo di una donna chiuderà quel cerchio non sarà solo una data nell’elenco delle ripetizioni: quel giorno sarà una festa» (p 12) –, ma anche l’attenzione e la pressione mediatica degli sponsor intorno alla competizione. Tutto il volume è percorso da un certo senso di colpa per questa ambiguità d’atteggiamento: all’ideale di un alpinismo che Meroi definisce “leggero”, rispettoso della montagna così come dei propri limiti, vissuto in primo luogo come esperienza personale e di relazione con gli altri, si accompagna costantemente il senso di ripudio per il compromesso, che appare tuttavia necessario, con il sistema della mercificazione e della spettacolarizzazione della pratica alpinistica, che impone la competizione, così come l’astio per lo sfruttamento dei luoghi in cui l’alpinismo viene esercitato. Lo sfruttamento commerciale della pratica è infatti costantemente additato, così come quello delle popolazioni locali ma anche quello cui le stesse popolazioni si sono oramai adeguate, su modello degli occidentali, sfruttando anche loro i turisti della scalata che sempre più numerosi affollano le montagne e le pagine di Meroi. Davanti a un processo che comporta una sorta di spersonalizzazione degli autoctoni, Meroi sottolinea il contatto umano istaurato con gli sherpa e con la folta “corte” di agenti e portatori che li accompagna periodicamente nella spedizione. Estrema importanza ha il racconto delle condizioni sociali e politiche del Nepal e delle varie realtà locali, a cominciare da Katmandu, considerata dai due come una seconda casa. Meroi si sofferma molto sui rivolgimenti politici nella storia recente del paese e sugli scioperi che imperversano contro il governo, sulle condizioni di povertà, sul sistema economico, ma anche sulla cultura delle popolazioni locali e sui loro riti – a cominciare dal rito del puja, che precede le scalate come buon auspicio – affidando alla descrizione antropologica, che tradizionalmente informa la letteratura alpinistica, un ruolo preminente. In questo contesto, si inserisce una storia dentro la storia principale, quella della giornalista Elizabeth Hawley, che da decenni è testimone diretta della storia nepalese così come di ogni singola spedizione alpinistica, di cui redige dettagliati resoconti, e che intervista i due alpinisti prima e dopo ogni scalata. La prima parte del testo Una dimensione scomoda, è dedicata al primo tentativo sul Kangchendzonga – in realtà il loro secondo – che si interrompe ad alta quota quando Romano Benet comincia a stare male e, stremato, non riesce ad andare avanti, ma invita la moglie a proseguire comunque verso la vetta, oramai vicina, per non interrompere la sua corsa al primato: si offre di aspettarla lì, a circa 7.500 metri di quota, ma Meroi si rifiuta di farlo aspettare e comincia con lui una difficile discesa. Meroi ricorda con incredulità e amarezza la reazione di molti, oltre che dei media, che non riescono a comprendere perché non abbia proseguito abbandonando così la competizione. La gara viene vinta poco dopo da un’altra alpinista, la coreana Oh Eun-Sun che viene però espropriata del titolo per dubbi relativi all’effettivo raggiungimento della vetta; il titolo passa così alla spagnola Edurne Pasaban. L’amarezza di Meroi è rivolta, non tanto al suo abbandono della gara, quanto alle grandi polemiche che hanno accompagnato l’evento che avrebbe dovuto segnare una tappa importante per il genere femminile, genere che si rivela sempre più improntato a logiche competitive tipicamente maschili anziché andare alla ricerca di una via alternativa, un modo proprio di essere ma anche di intendere l’alpinismo, differente e capace di allontanarsi dal «mito misurato in metri» (p. 107) che governa l’alpinismo. Il quindicesimo ottomila è il titolo della seconda sezione, dedicata al travaglio della malattia di Benet, passato attraverso un doppio trapianto di midollo e l’impianto di una protesi all’anca: il paragone tra l’impresa della scalata e la malattia è costante, entrambe descritte come un labirinto in cui ci si perde; ma proprio il ricordo della scalata e della montagna sembrano dare a Benet la forza di rimettersi. In Il tempo dell’assurdo, terza parte del libro, Meroi racconta l’impresa che avrebbe dovuto segnare il riscatto, il tentativo di risalire il Kangchendzonga nel 2012, effettuata nonostante le preoccupazioni legate allo stato di salute del marito. L’impresa termina con una beffa del destino, che a pochi passi dalla vetta fa sbagliare strada ai due alpinisti, che raggiungono la cima sbagliata. Il racconto del nuovo tentativo, stavolta riuscito, nel 2014, nell’ultima parte del volume, La montagna mantiene la promessa, termina con un ringraziamento al donatore di midollo che ha salvato la vita a Benet e con il desiderio di vivere in una società «sovversiva» che scelga il «dono come valore primario» (p. 177) e scelga di prendersi cura anziché approfittarsi dell’altro. Il racconto di Meroi si svolge con un uso calibrato di analessi e digressioni che movimentano il racconto delle scalate, scandito a sua volta da un andamento diaristico; l’attenzione all’intreccio è poi unita a una certa sensibilità letteraria nelle descrizioni di luoghi e persone e nei momenti riflessivi, non mancano, inoltre, espliciti riferimenti alle numerose letture compiute durante le attese prima e durante la scalata; a metà del volume, un’appendice fotografica a colori racconta le ascensioni e gli incontri con le popolazioni locali.
[Giovanna Lo Monaco, 26/11/2025]
Ultimo aggiornamento
26.11.2025