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Kukuczka Józef Jerzy (1948-1989)

Józef Jerzy Kukuczka nasce a Katowice, nella Polonia meridionale, nel 1948. Inizia a scalare nel 1965 e ben presto si impone nel panorama internazionale. Vive in povertà e dipinge le ciminiere delle fabbriche. Nel 1987 è divenuto il secondo uomo, dopo Reinhold Messner, ad aver scalato le quattordici vette che superano gli 8000 m s.l.m. Muore sul Lhotse nel 1989 per la rottura di una corda. Ha aperto una nuova via sull’Everest (1980); sul Makalu, in solitaria (1981); sul Gasherbrum II (1983); sul Gasherbrum I (1983); sul Broad Peak (1984); sul Cho Oyu (1985); sul Nanga Parbat (1985); sul K2 (1986); sul Manaslu (1986) e sul Shisha Pangma (1987). Ha effettuato la prima ascensione invernale del Dhaulagiri I (1985); del Kangchenjunga (1986) e dell’Annapurna (1987). Scrive Mój pionowy świat czyli 14 x 8000 metrów, London, Wydawnictwo, 1995. 

Titolo: Mój pionowy świat czyli 14 x 8000 metrów

Luogo di edizione: London

Casa editrice: Wydawnictwo

Anno di pubblicazione: 1995

Edizione italiana di riferimento: Il mio mondo verticale, Milano, Versante Sud, 2002.

 

Il volume si apre con una prefazione di Reinhold Messner, che ricorda la caduta di Kukuczka sulla parete Sud del Lhotse come una «grande perdita per l’alpinismo» (p. 5), e con una prefazione di Simone Moro che racconta di essere entrato facilmente «in confidenza e amicizia con un uomo “come tanti”» (p. 7). Nell’introduzione, Kukuczka racconta di aver compiuto la prima scalata su roccia il 4 settembre 1965, a Podlesice, e di aver deciso di seguire un corso di arrampicata per un anno e dice: «sentivo che era quello ciò che volevo» (p. 11). Con Piotrek Skorupa compie una serie ascensioni sui Monti Tatra per mettersi alla prova ma, dopo queste vittorie, viene chiamato dal servizio militare, vissuto «come una calamità naturale, uno strappo, per due anni, da quello che era stato il senso della vita» (Ibidem).  Una volta tornato, affronta in inverno la Kazalnica ma, a causa di una corda ghiacciata, Piotrek cade e muore, sconvolgendo l’autore che, nonostante il dolore, decide di dedicarsi anima e corpo alla montagna. Partecipa a delle spedizioni internazionali in Alaska e sulle Alpi, entra nel Club di Alta Montagna di Gliwice nel 1975 e affronta le montagne himalayane. Tre anni dopo, inizia a dipingere le ciminiere su iniziativa del direttore della Manutenzione Acciaierie per finanziare le spedizioni internazionali, a partire da quella per scalare il Lhotse, nel 1979, avendo come caposquadra Adam Bilczewski: durante quest’impresa, incontra Reinhold Messner ‒ a cui dice di aver trovato la torcia di Günther Messner, fratello di Reinhold, sul Nanga Parbat ‒ di cui nota l’attrezzatura avanzata e, al contempo, la cordialità.  Dopodiché, l’autore racconta della nascita di suo figlio Maciek, per la quale rinuncia senza rimpianti a partire per la conquista della prima invernale dell’Everest. Su quest’ultimo si reca qualche mese più tardi con Gienek Chrobak, Andrzej Czok, Rysiek Gajewski, Zyga Heinrich, Janusz Kulis, Waldek Olech, Jacek Rusiecki e Wojtek Wroz, arrivando sulla vetta tracciando una via nuova e torna in patria tra i festeggiamenti mentre i polacchi, pieni di orgoglio indipendentista, iniziano ad opporsi con scioperi e sabotaggi contro la dittatura sovietica.  Nel 1981, dopo aver compiuto delle ascensioni in Nuova Zelanda, si reca alle pendici del Makalu insieme a Wojtek Kurtyka ‒ occasione in cui incontra Doug Scott e nuovamente Messner ‒ ed effettua la scalata da solo, con delle pessime condizioni metereologiche e affrontando dei passaggi in libera. Nello stesso anno, in Polonia entra in vigore la legge marziale e, in un clima di terrore e di desolazione, l’autore e Kurtyka decidono di aggregarsi alla spedizione al K2 di Wanda Rutkiewicz per uscire dal paese, con l’accordo di non intralciare l’impresa strettamente femminile. Durante quest’occasione ‒ durante la quale perde la vita Halina Kruger ‒, riesce a scalare il Broad Peak, pur essendo privo dei permessi. In seguito, i due amici polacchi contrabbandano alcolici per poter coprire le spese delle loro spedizioni alpinistiche, tra cui quella al Gasherbrum I e al Gasherbrum II del 1983, pur non avendo le complete autorizzazioni. Tra burocrazia e inchieste interne, Kurtyka e Kukuczka riescono a tornare in Himalaya già l’anno successivo, aggregandosi alla spedizione di Janusz Majer per il Broad Peak, con l’intento di compiere l’ascensione del Gasherbrum IV.  Nel 1985, nasce il secondo figlio dell’autore, Wojtek, mentre l’alpinista è intento a scalare il Dhaulagiri. A causa di quest’ascensione riporta dei congelamenti alle dita dei piedi, ciononostante intraprende una corsa contro il tempo per scalare anche il Cho Oyu e, una volta in patria, avverte «il cuore […] scaldato da una grande soddisfazione» (p. 150). Invitato da Pawel Mularz, capo di una spedizione polacca prevista per il 1985, Kukuczka torna in Himalaya per scalare il Nanga Parbat, aprendo una nuova via sul pilastro Sud-est, ma il 10 luglio Piotrek Kalmus viene travolto da una valanga. Nei vari campi serpeggia il caos e l’autore descrive il clima teso, nervoso e triste che si instaura in questi frangenti quando, cioè, è necessario che emerga un leader per riportare l’equilibrio: nonostante Kukuczka voglia continuare a salire, rimette la decisione a Zyga Heinrich e, in ultima analisi, in quattro attaccano invano la vetta.  Segue il racconto di ulteriori imprese, talvolta fallimentari talaltra vittoriose, come il tentativo sulla parete Sud del Lhotse nel 1985, durante cui muore Rafal Cholda; la spedizione al Kangchenjunga nell’inverno 1986, caratterizzata dalla perdita del compagno Andrzej Czok e del capo-spedizione Heniek Furmanik; la spedizione al K2 dello stesso anno ‒ in concomitanza con quelle francese, italiana, inglese, americana, coreana, a cui si aggiunge in solitaria Renato Casarotto ‒, guidata da Karl Maria Herligkoffer con l’intento di scalare la difficile parete Sud, su invito dell’amico Tadek Piotrowski che muore a causa della perdita dei ramponi durante la discesa. 

Nonostante la perdita di Tadek, l’autore parte dopo poco per il Manaslu e l’Annapurna con Artur Hajzer, Rysiek Warecki, Carlos Carsolio, Edek Westerlund e l’amico Kurtyka ma, al campo base, apprende dalla radio che Messner aveva ufficialmente completato la salita di tutti i quattordici Ottomila e Kukuczka scrive: «aspettavo questa notizia, ma adesso che era arrivata, nonostante tutto, ero diventato triste. Era lui, comunque, il primo. Ero deluso, ma anche inaspettatamente sollevato. Finalmente tutto quel chiasso intorno alla nostra competizione era finito. Ora potevo tranquillamente proseguire per la mia strada» (p. 224). Il volume si conclude con il racconto della prima ascensione invernale della parete Nord dell’Annapurna nel 1987 con Hajzer, Warecki, Krzysiek Wielicki, Michal Tokarzewski, Wanda Rutkiewicz ‒ nonostante l’autore si esprima più volte contrario all’alpinismo femminile ‒ e Jacek Palkiewicz, giornalista della «Gazzetta dello Sport», e della scalata dello Shisha Pangma per il versante occidentale, completando così gli Ottomila: «qualcosa è veramente finito? No, il mondo verticale non finisce mai. È là, aspetta» (p. 281).

La scrittura dell’alpinista polacco è prevalentemente descrittiva ed è caratterizzata da un registro colloquiale. L’autore insiste con particolare attenzione sulle condizioni economiche in cui versano lui e gli altri alpinisti durante la dittatura sovietica, mettendo in luce le notevoli differenze tra scalatori del blocco occidentale e del blocco orientale. Kukuczka scala con corde di pessima qualità, chiodi, ramponi e piccozza. Riguardo all’emozione provata in cima, l’autore scrive: «quando sono sulla vetta la conquista ormai ha perso importanza, ciò che conta è solo scendere il più velocemente possibile e arrivare alla tenda» (p. 248), per cui ad interessargli è la lotta sulla parete. 

Fin dall’introduzione, chiarisce che in questo libro autobiografico: «non c’è una risposta alla domanda, posta con insistenza, su qual è il senso delle spedizioni verso le alte montagne. Non ho mai sentito il bisogno di una simile definizione. Andavo sulle montagne e le conquistavo. Ecco tutto» (p. 13). In seguito, afferma di cercare «la solitudine, il contatto con la natura e con sé stesso» (p. 76), perseguendo l’obiettivo di superare ogni difficoltà.

 

[Clementina Greco, 16 novembre 2025]

 

Ultimo aggiornamento

18.11.2025

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