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Piaz Tita (1879-1948)

Giovanni Battista Piaz nasce a Pera di Fassa nel 1879 da Giovanni Battista, venditore di giocattoli e bestiame, abituato a valicare il Giogo di Fassa per raggiungere la Val Gardena, e da Caterina Deluca, venditrice ambulante. Fin da piccolo, Piaz si appassiona alla recitazione e alla montagna. Si trasferisce a Bolzano per studiare ma ben presto viene espulso e diventa guida alpina. Nel 1903 sposa Marietta Rizzi, figlia del gestore del rifugio Vajolet, da cui ha tre figlie. Nel 1907 apre una casa per turisti mentre, in seguito alla morte della moglie nel 1912, non ricevendo in gestione il rifugio Vajolet, decide di edificare il rifugio Preuss, dedicato al caro amico alpinista Paul. Durante il fascismo, viene arrestato più volte come oppositore politico. A causa di un incidente in bicicletta, muore nel 1948. Conosciuto come “il Diavolo delle Dolomiti”, Piaz è famoso per aver inventato la tecnica della discesa in corda doppia ‒ contesa con Hans Dülfer ‒, per aver effettuato un centinaio di salvataggi in quota, per aver aperto circa una cinquantina di nuove vie tra la Val di Fassa, le Dolomiti orientali e il Kaisergebirge. Tra le numerose ascensioni, è famoso per: aver scalato la Torre Winkler (1897); l’ascensione in solitaria della Punta Emma del Catinaccio tramite la fessura Nord-est (1900); la prima ascensione del Campanile Toro (1906); la prima ascensione della Punta di Frida nelle Tre Cime di Lavaredo (1912) con Hans Dülfer. Oltre a dedicarsi alla poesia in lingua ladina fassana, scrive: Mezzo secolo d’alpinismo, Bologna, Cappelli, 1947 e A tu per tu con le crode, Bologna, Cappelli, 1949.

 

Titolo: Mezzo secolo d’alpinismo

Luogo di edizione: Bologna

Casa editrice: Cappelli

Anno di pubblicazione: 1947

Edizione di riferimento: Mezzo secolo d’alpinismo, Bologna, Licinio Cappelli, 1949.

 

Dedicato al padre, il volume, corredato da numerose fotografie, si apre con una consistente prefazione scritta da Lidia Minervini che insiste sulla personalità di Piaz che ‒ a suo avviso ‒ «sommerge quella dell’alpinista, che è di per se stessa grandissima» (p. 9) e, riguardo al libro scrive: «non è una semplice autobiografia, ma vi si innestano articoli, memoriali, polemiche, in cui l’incredibile esuberanza dell’uomo, le sue ribellioni, le sue ire, la sua generosità, l’appassionato e quasi tormentoso desiderio di libertà sconfinata, hanno trovato la loro veste caratteristica e personalissima» (p. 13). I trentatré capitoli di questa articolata autobiografia sono presentati da un’introduzione scritta da Piaz per riflettere riguardo alla pratica alpinistica, cercando di tracciare una sorta di bilancio della sua attività. Ricorda di aver giudicato l’alpinista «se non un angelo autentico o un piccolo Dio, per lo meno un portento sociale, un essere d’una classe indubbiamente superiore» (p. 24) per poi, nel corso degli anni, ridimensionare la statura di tale ruolo. Nel primo capitolo, Piaz pensa all’infanzia e rammenta di essersi sempre arrampicato ovunque, dentro e fuori la casa di famiglia. Ben presto, scala una rupe di quindici metri accanto all’Albergo Rizzi e il campanile della chiesa, esibendosi davanti agli amici per dimostrare «la superiorità assoluta» (p. 31). Da ragazzino aiuta la madre nel suo lavoro da ambulante, percorrendo vari chilometri ogni giorno per trasportare la merce, e si dedica alla ginnastica. Dopodiché, racconta di aver scalato per la prima volta, nel 1894 a soli quattordici anni, la Forcella di Davoi e scrive: «quando ripenso a quel giorno lontano così scarso di sentimenti eroici, non mi risparmio i rimproveri più acerbi» (p. 42).  Nei capitoli successivi, Piaz riporta di esser salito sul Col Ombert con Michele Locatin e sul Catinaccio, sempre con Locatin e con Pietro Gross. Nel 1898, riesce a scalare la Torre Winkler come capocordata e con una ventina di metri di corda e, grazie a questa impresa, oltre a sentirsi «all’apice di tutte le felicità umane» (p. 60) diventa anche famoso e inizia a svolgere la mansione di guida alpina, per mezzo di un accordo con il rifugio Vajolet. In seguito, per conquistarsi «un posto nel Pantheon dell’alpinismo» (p. 86), compie con l’amico Antonio Schrott ‒ che muore nel 1901 scalando il Grassleitenturm, come viene raccontato in un capitolo a lui dedicato ‒ una delle ascensioni considerate più complesse dalle guide attive alla fine del XIX secolo, ossia la Torre Delago. Nel 1899 è la volta del pilastro Nord del Rosengarten intitolato alla lavapiatti del rifugio Vajolet, Emma Dellagiacoma, e del Piz Piaz. L’autore procede con la descrizione della traversata della  parete Est del Catinaccio, con i conseguenti festeggiamenti al rifugio Vajolet, dell’ascensione della parete Nord-est della Punta Emma ‒ «cominciavo a divenire un alpinista serio!» (p. 119) ‒ e dell’incontro con «il Re delle guide d’allora, Antonio Dimai» (p. 121). Nel 1900, praticando il mestiere di guida di frodo, viene multato dal Commissario Capitanale di Cavalese, per una denuncia di una guida ufficiale, e parte per il servizio militare. Due anni più tardi, effettua l’ardita ascensione del Campanil Basso di Brenta con Franz Wenter e, dopo aver ricevuto l’ennesima multa per illecito esercizio di guida alpina, si adatta a malincuore a presentare le pratiche per diventare una guida ufficiale, ciononostante viene respinto come non idoneo dalla Sezione di Bolzano e serve l’intervento della Luogotenenza di Innsbruck per risolvere la questione. Seguono altri capitoli che riportano la scalata della parete Nord-ovest del Campanile Pra’ di Toro, della Guglia Edmondo De Amicis, della parete Ovest del Totenkirchel nel Kaisergebirge con Klammer e Franz Schroffenegger, del tentativo di compiere l’ascensione del Camino Nieberl e della scalata della Forcella denominata da Piaz come la sua portatrice in Carnia, Teresa.  Nel 1908, inoltre, Piaz diventa direttore filodrammatico e si dedica anche all’attività politica, seguendo il socialista Cesare Battisti. L’autore racconta anche di un salvataggio di un uomo tedesco compiuto sulle Torri del Vajolet nel 1912, facendo ironicamente riferimento all’alleanza tra i rispettivi Paesi. Nel capitolo successivo, infatti, Piaz racconta la sua esperienza da irredentista trentino, da sostenitore degli «Stati Uniti di Europa» (p. 227), da falsario di licenze e documenti per disertori e sabotatori, da ribelle trentino che, nel 1915, viene arrestato dagli austriaci: trasferimenti, vessazioni, atti di rivolta sono registrati con pathos dall’autore, che dedica ampio spazio a tali vicende.  In seguito, nella primavera del 1919 «le Dolomiti profanate in ogni angolo dagli strumenti di distruzione e di morte della guerra fratricida, si apprestavano nuovamente a profondere i loro divini doni all’uomo nuovo» (p. 266) e Piaz vi torna con commozione. Dopodiché, l’autore narra il difficile periodo della dittatura fascista ‒ definisce Mussolini un «tragico arlecchino camuffato da imperatore romano» (p. 269) e «grande delinquente» (Ibidem) ‒, essendo nella lista dei sovversivi. 

Raccontando la sua pericolosa ascensione della parete Nord della Punta Latemar, Piaz riflette sull’alpinismo, attività umana che conduce alla purificazione dell’anima, alla vita, all’amore, anche grazie al pericolo che, a suo avviso, non può e non deve essere eliminato. Il volume si conclude con una serie di ringraziamenti.

La prosa di Piaz è brillante, ironica, imaginifica ed estremamente coinvolgente per il lettore. Scala usando la corda, gli alpenstock e un cannocchiale e, all’inizio, arrampica in calzini poi con le scarpette da roccia. 

In vari passi del volume, l’autore ragiona sull’alpinismo moderno e sulle facilitazioni tecniche che, a suo avviso, hanno aperto numerose possibilità in ambito alpinistico ma, al contempo, hanno ingiustamente ridimensionato le imprese precedenti: «con troppa facilità si dimentica di tener conto dei tempi: coi mezzi artificiali e coi metodi adottati attualmente, non c’è più vittoria sulla parete più levigata che possa essere ritenuta impossibile» (p. 123) e «si perde il rispetto dovuto ai pionieri di un ideale o di un grande pensiero» (p. 124). Il senso del suo alpinismo traspare fin dall’introduzione, in cui Piaz scrive: «uno dei beni più preziosi che l’alpinismo regali all’uomo, oltre la comprensione e il godimento spirituale delle meraviglie della creazione, è la possibilità di scendere l’abisso fatale, ove piomba silenzioso il nero fiume degli anni, travolgente uomini e cose, di afferrare a piene mani lucenti fasci di ricordi, risalire alla luce del sole, e rivivere, in un santo cantuccio dell’anima, quei giorni lontani, divinamente splendenti di sconfitte feconde e di vittorie» (p. 23).

 

[Clementina Greco, 15 novembre 2025]

Ultimo aggiornamento

16.11.2025

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