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Mosso Angelo (1846-1910)

Nato a Torino il 30 maggio 1846 da una famiglia operaia di Chieri, frequenta il ginnasio e si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università di Torino. Dopo aver insegnato scienze naturali presso il liceo di Chieri, inizia l’attività di ricerca presso il laboratorio di fisiologia di Firenze e ottiene numerosi incarichi anche all’estero. Dagli anni Settanta, partecipa a delle spedizioni scientifiche in montagna con l’amico Quintino Sella. Nel 1875 diventa docente di Farmacologia e, nel 1879, ottiene la cattedra di Fisiologia. Nel 1902 fonda l’Osservatorio Regina Margherita sul Monte Rossa, presso la Punta Gnifetti, ospitante l’Istituto di Fisiologia per lo Studio delle Alpi. Dal 1904 è senatore a vita e, in questi anni, si dedica all’archeologia. Muore a Torino il 24 novembre 1910. Le pubblicazioni scientifiche sono numerose e significative. Appassionato di montagna, scrive Una ascensione d’inverno al Monte Rosa (13 a 15 febbraio 1885), Milano, Treves, 1885.  

 

Titolo: Una ascensione d’inverno al Monte Rosa (13 a 15 febbraio 1885)

Luogo di edizione: Milano

Casa editrice: Treves

Anno di pubblicazione: 1885

 

In questo volume dedicato alla moglie Maria Treves, sorella del noto editore, l’autore racconta l’ascensione invernale compiuta nel febbraio 1885 con Alessandro Sella, figlio dello scienziato, alpinista e politico Quintino Sella. Nel primo capitolo di questo récit d’ascension, riporta l’avventuroso viaggio da Biella ad Alagna compiuto in carrozza; giunti al villaggio di Piode, i due sono costretti a camminare a causa della neve alta ‒ «è tutto un candore come se camminassimo in mezzo a piume di cigno» (p. 5) ‒ e lentamente riescono a raggiungere Moglia, dove una valanga blocca la vallata. 

Superate queste difficoltà, arrivano all’Albergo Monte Rosa: una volta preso accordi con le guide del posto, Pietro Guglielmina e Giovanni Gilardi, e aver assistito a una folkloristica festa di matrimonio, ampiamente descritta nel volume, la piccola comitiva si dirige verso il Col d’Olen. Oltre al cacciatore di camosci Guglielmina e al montanaro Gilardi, si uniscono due portatori di cui Mosso non rivela il nome. Mentre il gruppo sale, scoppia una bufera che complica le manovre di scalata, tanto che l’autore ha più volte bisogno dell’aiuto delle guide. Successivamente, Mosso racconta le prove affrontate sullo Stohlemberg, sul ghiacciaio di Embours e sul ghiacciaio di Garstlets, fino alla capanna Gnifetti. Nel sesto capitolo, l’autore riporta i dettagli dell’ascensione alla Piramide Vincent: legandosi con una fune e rispettando tre metri di distanza l’uno dall’altro, ogni componente scala con successo questa montagna e la narrazione si interrompe sulle emozioni provate in vetta, tralasciando quanto effettuato durante la discesa.

La prosa di Mosso è limpida, elegante e scorrevole, mentre il lessico è comune. Arrampica con scarponi, bastone ferrato, picche e racchette. Riguardo a queste ultime, scrive in nota: «sono fatte come uno staccio che si lega sotto i piedi per non affondare troppo nella neve. Quelle che adoperano i nostri alpigiani sono fatte da un grosso cerchio di legno di forma ovale chiuso nell’interno da una reticella di corda. […]. L’uso delle racchette è antichissimo: secondo Rollin, se ne servivano già i Greci per camminare sulla neve: in Norvegia si adoperano delle racchette di legno fatte con assicelle lunghe sei o sette piedi. Le racchette delle quali si servono i selvaggi dell’America del Nord, sono eguali a quelle dei nostri alpigiani» (pp. 38-39). Mosso ha certamente degli interessi scientifici, ma, dalla lettura del suo récit d’ascension emerge soprattutto una fervida passione per le montagne e per i paesaggi ad alta quota. Lontano dallo spirito competitivo, l’autore non considera l’alpinismo come una pratica sportiva bensì un’attività che permette all’uomo di contemplare vedute eccezionali e sublimi. Nella conclusione del volume, così lo scrittore si esprime a tale riguardo: «su quelle cime che sono fuori della storia e dei secoli, si sentono vibrare nel cuore delle corde che rimangono silenziose nella vita di quaggiù. La maestà delle Alpi più di ogni altra cosa terrena è capace di sollevare la mente dell’uomo verso gli spazii misteriosi dell’infinito. Si sente che siamo giunti agli estremi confini del mondo e della vita; il pensiero del pericolo viene soggiogato dalla potenza dell’intelletto, che si compiace di sfidare e di superare i terrori della natura» (pp. 90-91).  

 

[Clementina Greco, 28 ottobre 2025]

Ultimo aggiornamento

15.11.2025

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