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Hunt John (1910-1988)

Henry Cecil John Hunt nasce nel 1910 a Shimla, in India, e, dall’età di dieci anni, trascorre le sue vacanze nelle Alpi. Dopo aver studiato al Marlborough College, effettua la carriera militare per l’esercito britannico, seguendo le orme paterne, per poi lavorare a lungo anche nell’intelligence. Grazie al servizio prestato durante la Seconda guerra mondiale, diventa dapprima Maggiore e poi Colonnello. Muore nel 1988. Si ricorda per aver scalato il Saltoro Kangri (1935) e per organizzato e compiuto l’ascensione dell’Everest (1953), riguardo alla quale ha scritto The Ascent of Everest, London, Hodder & Stoughton, 1953. Ha pubblicato anche Life is meeting, London, Hodder & Stoughton, 1978.

 

Titolo: The Ascent of Everest

Luogo di edizione: London

Casa editrice: Hodder & Stoughton

Anno di pubblicazione: 1953

Edizione italiana di riferimento: La Conquista dell’Everest, trad. Donato Barbone, Bari, Leonardo Da Vinci, 1954.

 

Sei parti titolate ‒ Lo sfondo; Il piano; La marcia d’avvicinamento; La messa a punto; L’assalto e Dopo la vittoria ‒, suddivise in due o quattro capitoli, compongono questo volume, contenente numerose fotografie e illustrazioni. Si tratta di un récit d’ascension che ripercorre dettagliatamente le fasi che hanno condotto alla prima ascensione dell’Everest, la montagna più alta del mondo. Immediatamente Hunt avverte il lettore del fatto che «in verità, la storia non sarà completa, perché la conquista dell’Everest non era impresa che potesse compiersi in un sol giorno, e neppure in quelle indimenticabili settimane d’ansia che videro i nostri preparativi e la nostra scalata» (p. 13). Riconoscendo, dunque, l’impresa come atto conclusivo di un progetto ad ampio respiro, l’autore dà conto dei tentativi di ascensione precedenti e mette in evidenza tre criticità affrontate su questa montagna da ogni alpinista: l’altitudine, le difficoltà di scalata e le condizioni atmosferiche. Nella seconda parte del volume, Hunt descrive dettagliatamente i preparativi, avviati nel settembre 1952, necessari a «un’impresa formidabile» (p. 34) come una spedizione in Himalaya. In via preliminare, l’organizzatore ‒ vale a dire l’autore stesso ‒ deve scegliere degli uomini fisicamente, tecnicamente e psicologicamente in grado di affrontare un’esperienza in cui «le condizioni di vita oscillano da un estremo all’altro di intollerabilità» (p. 34). La decisione definitiva ricade su dieci alpinisti del Commonwealth ‒ i britannici Charles Evans, Tom Bourdillon, Alfred Gregory, Charles Wylie, Michael Westmacott, George Band, Wilfrid Noyce e Hunt, i neozelandesi Edmund Hillary e George Lowe ‒, il medico Michael Ward e alcune riserve. A questi si aggiungono, su imposizione del Medical Research Council e della Countryman Films Ltd il fisiologo Griffith Pugh e l’operatore cinematografico Tom Stobart. Inoltre, Hunt deve occuparsi dell’equipaggiamento da imballare, catalogare e trasportare, del regime alimentare, del finanziamento della spedizione, di prevedere la quantità di bombole d’ossigeno necessarie e di redigere un piano d’attacco. Secondo il suo progetto, il periodo preparatorio richiede tre settimane, mentre il cosiddetto «periodo dell’assalto» (p. 51) sette giorni. In seguito, Hunt, Wylie, Gregory e Pugh collaudano l’equipaggiamento sullo Jungfraujoch, dopo aver trascorso una giornata con Gaston Rebuffat, «un eccellente amico e compagno di ascensioni» (p. 68). La lunga fase di preparazione alla conquista dell’Everest si conclude con una visita a Buckingham Palace, dove Hunt viene ricevuto dal Duca di Edimburgo, patrono della spedizione e autore della prefazione che apre il volume. Nella terza parte del récit, Hunt racconta la marcia di avvicinamento verso il Nepal, iniziata nel febbraio 1953, finché ognuno dei componenti della spedizione si ritrova a Kathmandu, dove avviene l’incontro con venti sherpa scelti dall’Himalayan Club che così vengono descritti: «gli sherpas sono montanari originari del distretto di Sola Khumbu (Nepal orientale). Di ceppo tibetano, […] sono piccoli, robusti, e hanno tutte le genuine qualità degli alpinisti nati. […]. In montagna sono compagni meravigliosi» (p. 79). Dalla capitale nepalese, i portatori, gli sherpa e gli alpinisti si incamminano lentamente, diretti a est, per collocare il primo Campo Base a Thyangboche. Qui inizia un periodo di addestramento per acclimatarsi e per allenarsi, durante il quale il gruppo si amalgama sempre più e ha la possibilità di esplorare luoghi incontaminati. In seguito, la compagine ‒ suddivisa in piccoli gruppi ‒ stabilisce un nuovo Campo Base sul ghiacciaio Khumbu ‒ «il posto aveva preso ad assomigliare a un alveare» (p. 132) ‒ e un campo a 6000 metri d’altitudine attrezzando, tra fatica e pericoli, una via lungo la seraccata. In seguito, i vari membri del gruppo e ventotto sherpa provvedono al dislocamento delle scorte al Campo IV presso la testata del Circo occidentale, dopo aver superato un terribile crepaccio che sbarra la via d’accesso, per poi stabilire un Campo V ai piedi della parete del Lhotse. Durante queste operazioni, dettagliatamente registrate da Hunt, Charles Wylie viene raggiunto dalla notizia di essere divenuto padre, ma il programma della spedizione procede senza variazioni: superata la ricognizione sul Lhotse e attrezzato anche un Campo VI e un Campo VII, Hunt, Hillary ed Evans mettono a punto i dettagli per l’assalto alla vetta dell’Everest, considerando due tentativi ravvicinati da parte di due differenti cordate, sostenute da altrettante cordate d’appoggio. Il primo attacco, condotto con respiratori a circuito chiuso, viene affidato a Bourdillon ed Evans mentre il secondo, con apparecchi a circuito aperto, viene assegnato a Tenzing e Hillary. Con dedizione e sacrificio, ogni componente della spedizione porta a termine il suo compito, nonostante le fatiche, i pericoli e i numerosi problemi tecnici agli erogatori di ossigeno. Ricca di pathos è la descrizione della scalata di Hunt nei pressi della Cima Sud, con il fine di depositare il materiale di sostegno per gli altri a quota 8335 metri. L’autore, a questo punto, narra le operazioni condotte da Evans e Bourdillon per raggiungere la Cima Sud, costretti poi a scendere senza conquistare la vetta dell’Everest. La quinta parte termina con uno slittamento della voce narrante che da Hunt passa a Edmund Hillary, addetto a raccontare l’ascensione dal Colle Sud alla vetta. Il 28 maggio, utilizzando la pista aperta, secondo i piani, da Lowe, da Gregory e dal portatore Ang Nyima, Hillary e Tenzing partono trasportando ben ventotto chili di materiale e raggiungono 8500 metri di altitudine. Il giorno successivo, i due riescono a raggiungere la cima alle 11.30 e si abbandonano all’emozione, per poi scattare numerose fotografie e piantare le bandierine della Gran Bretagna, del Nepal, delle Nazioni Unite e dell’India. Tornato al campo, Hillary così descrive le sue sensazioni: «salutandoli ‒ forse con una certa commozione ‒ provai più vivo che mai quel forte sentimento d’amicizia e di cooperazione che aveva predominato durante tutta la spedizione. […]. Quando vidi illuminarsi d’una gioia irrefrenabile il viso scarno dell’uomo coraggioso e risoluto ch’era nostro capo, sentii che in questo io avevo la miglior ricompensa» (p. 265). Nella sesta parte, Hunt riprende la narrazione, registrando il ritorno del gruppo prima a Kathmandu, poi a Londra, dove si tiene un ricevimento al Palazzo reale, e poi a Calcutta, dove avvengono altri festeggiamenti. Nel paragrafo finale, intitolato Riflessioni, Hunt dà merito alle spedizioni precedenti, alla preparazione meticolosa, alla qualità dell’equipaggiamento, alla collaborazione degli sherpa, alle condizioni atmosferiche favorevoli e, infine, allo «spirito di corpo da cui era animata» (p. 287) la spedizione.

La prosa di Hunt è costituita in prevalenza da sequenze descrittive e narrative, caratterizzate da un linguaggio comprensibile e da una sintassi regolare. Hunt e gli altri alpinisti della spedizione utilizzano corda, chiodi, martelli, cordini, moschettoni, piccozze, ramponi, verricelli, una scala smontabile, tende biposto modello Meade, sacchi da bivacco, bombole d’ossigeno e perfino un mortaio per «smuovere […] ogni valanga in agguato» (p. 57). Per quanto riguarda il vestiario, ogni componente della spedizione indossa all’esterno abiti di cotone misto a nylon, mentre all’interno indumenti imbottiti di piumini e dotati di cappuccio, a cui si aggiungono ben tre paia di guanti, rispettivamente di seta, di lana e di cotone. Due paia di scarponi, uno a doppia tomaia di cuoio foderata di pelliccia e l’altro con tomaia isolata grazie al tropal, completano la fornitura adottata durante la spedizione. Dalla lettura del récit emerge che per Hunt il senso dell’alpinismo risiede nello «spirito di avventura latente in ogni cuore umano» (p. 290).

 

[Clementina Greco, 30 ottobre 2025]

Ultimo aggiornamento

14.11.2025

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