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Bonatti Walter (1930-2011)

Nasce a Bergamo il 22 giugno 1930 e inizia la sua attività sportiva come ginnasta nella società monzese “Forti e Liberi”. Si dedica all’alpinismo dal 1948, scalando numerose cime delle Prealpi lombarde mentre, per mantenersi, lavora come operaio siderurgico presso la Falck. Chiamato per la leva obbligatoria, viene assegnato alla Scuola Motorizzazione della Cecchignola ma, in seguito alle sue proteste, gli viene concesso di entrare nel 6º Reggimento alpini di Vipiteno, Battaglione "Bolzano". Successivamente, diventa istruttore presso la Scuola militare alpina di Aosta, dove frequenta numerosi corsi di alpinismo. Nel 1953 è ammesso nel CAAI e l’anno seguente consegue il brevetto di guida alpina. Nel 1954 partecipa alla prima spedizione nazionale italiana in Karakorum, guidata con Ardito Desio, per la conquista del K2: costretto a bivaccare con l’hunza Amir Mahdi a 8100 m s.l.m. ‒ a causa del fatto che Lino Lacedelli e Achille Compagnoni non piantano la tenda nel punto concordato in precedenza con Bonatti ‒ e dovendo affrontare l’atteggiamento oppositivo di Desio, Bonatti si ritrova al centro di una vicenda giudiziaria che viene chiarita soltanto nel 2004 dal CAI e nel 2008 dalla Società Geografica Italiana. Dal 1957 si trasferisce a Courmayeur, dove svolge l’attività di guida. Dopo la sua impresa sul Cervino del 1965, Bonatti riceve la Medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica e si ritira dall’alpinismo estremo. Inizia a collaborare come fotoreporter con il settimanale «Epoca», dedicandosi così all’esplorazione e ai reportages. Nello stesso anno, per esempio, discende in canoa i 2500 km dei fiumi Yukon e Porcupine in Canada e in Alaska. Nel 1967 giunge sull'Alto Orinoco ed entra in contatto con la popolazione indigena dei waikas Yanomami mentre, l’anno successivo, ha modo di studiare la popolazione dei sukai, aborigeni dell’isola di Sumatra. Nel 1971, esplora le sponde orientali del Lago Eire, nell’australiano Deserto Simpson, e cinquecento chilometri di fiordi della Patagonia. Insieme a Folco Doro Altan naviga lungo il corso del fiume Santa Cruz dal Lago Viedma fino all'Atlantico. Nel 1972 visita lo Zaire e il Congo e decide, l’anno successivo, di ripercorrere l’itinerario fluviale nella zona amazzonica del Venezuela compiuto e raccontato in trenta volumi dal barone Alexander von Humboldt. Tra il 1974 e il 1976 esplora la Nuova Guinea, la Guayana e l’Antartide. Nel 1978 riesce a individuare le sorgenti del Rio delle Amazzoni. Dopo l’ultima spedizione in Patagonia tra il 1986 e il 1987, Bonatti si ritira. Nel 2009 riceve il Piolet d’Or alla carriera. “Il Re delle Alpi”, così conosciuto nell’ambiente alpinistico, muore a Roma il 13 settembre 2011. Nel 2012 gli viene dedicato il film documentario “Walter Bonatti, con i muscoli, con il cuore, con la testa” di Michele Imperio e Fabio Pagani. L’eccezionale numero di imprese alpinistiche compiute da Bonatti non permette di elencarle tutte, ma si riportano le ascensioni più significative: la prima scalata dello Spigolo Nord della Punta Sant’Anna (1950); la prima scalata della parete Est del Grand Capucin (1951) con l’apertura della via Bonatti-Ghigo; la prima salita della parete Sud della Punta Young delle Grandes Jorasses (1952); la prima ascensione della Tofana di Rozes (1952); la prima invernale della Cima Ovest di Lavaredo (1952); la prima salita della parete Sud-ovest dell’Aiguilles du Dru, in solitaria, con apertura della via Bonatti (1955); la prima salita della parete Est del Grand Pilier d’Angle con l’apertura della via Bonatti-Gobbi (1957); prime ascensioni del Cerro Adela, del Cerro Doblado, del Cerro Grande e del Cerro Luca durante la spedizione in Patagonia con Carlo Mauri (1958); la prima ascensione del Gasherbrum IV con Carlo Mauri (1958); la prima ascensione del Petit Greuvetta (1959); la prima ascensione del Pilastro Rosso del Brouillard (1959) con apertura della via Bonatti-Oggioni; la prima ascensione del Monte Maudit (1959) con l’apertura della via Bonatti; la prima solitaria del versante della Brenva del Monte Bianco (1959); la prima salita del canalone Nord-est del Petit Mont Blanc (1960); la prima scalata della Chandelle del Mont Blanc du Tacul (1960) con l’apertura della via Bonatti; le prime ascensioni del Cerro Paria-Nord, del Nevado Ninashanca, del Nevado Rondoy, del Norte durante la spedizione in Perù, guidata da Giancarlo Frigieri (1961); la prima invernale del versante della Brenva del Monte Bianco (1961); la prima solitaria della parete Sud-est del Colle della Brenva (1961); la prima scalata della parete Sud del Monte Bianco (1961); la prima salita della parete Nord del Grand Pilier d’Angle (1961) con l’apertura della via Bonatti-Zappelli; la prima ascensione delle Petites Jorasses (1962); la prima invernale della Punta Walker delle Grandes Jorasses per la via Cassin (1963); la prima scalata della parete Est della Punta Innominata (1963); la prima salita dello spigolo Nord del Trident du Tacul (1964); la prima ascensione della parete Nord della Punta Whymper delle Grandes Jorasses (1964) con l’apertura della via Bonatti-Vaucher; la prima solitaria e invernale della parete Nord del Cervino (1965) con l’apertura della via Bonatti. Oltre ad essere prolifico autore di reportages, Walter Bonatti scrive numerosi libri dedicati all’alpinismo, all’esplorazione e ai viaggi, tra cui citiamo: Le mie montagne, Bologna, Zanichelli, 1961; I giorni grandi. Dalla tragedia del Bianco alla solitaria sul Cervino, le ultime imprese di un grande alpinista, Milano, Mondadori, 1971; Il caso K2 – 40 anni dopo, Genova, Ferrari, 1995; Montagne di una vita, Milano, Baldini & Castoldi, 1995; K2. Storia di un caso, Milano, Baldini & Castoldi, 1996; I miei ricordi. Scalate ai limiti dell’impossibile, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008.

 

Titolo: Le mie montagne

Luogo di edizione: Bologna

Casa editrice: Zanichelli

Anno di pubblicazione: 1961

Edizione di riferimento: Le mie montagne, Milano, Rizzoli, 1983.

 

Il volume, corredato da numerose fotografie, è introdotto da una prefazione in cui l’autore chiarisce il senso che ha per lui l’alpinismo: «È, al di là del sano esercizio atletico, un motivo di conquista interiore; è un modo di affinamento spirituale, di godimento interiore; è una scuola di responsabilità, di spartana sincerità verso se stessi e gli altri. E tutto questo è vissuto nel magnifico scenario naturale della montagna» (p. 5). Bonatti dichiara, inoltre, di essersi in qualche modo rifugiato sulle montagne, fin da piccolo, per sfuggire ai contatti con una società costituita, a suo avviso, da individui «troppo spesso subdoli e interessati» (pp. 6-7), stabilendo per lui un’identità fra la «contrapposizione tra mondo naturale e mondo sociale» e «tra felicità e infelicità» (p. 7). Enucleati con efficacia tali punti focali per presentarsi e per presentare le sue imprese alpinistiche, l’autore inizia il racconto, in ordine cronologico, delle avventure vissute sulle terre alte dal 1949 al 1961. Si segnalano, però, delle prolessi, aggiunte nella riedizione degli anni Ottanta, in cui l’autore descrive i ritorni, su certe cime, a distanza di anni dalle prime avventure. Il libro, un vero e proprio compendio di narrazioni ascensionali, si apre, quindi, con Bonatti che ricorda di essere stato attratto dal monte Alben che «innescava la […] fantasia grazie alle sue bianche crode vaporose» (p. 9), per poi iniziare a scalare in Grigna con alcuni amici ‒ Andrea Oggioni, Camillo Barzaghi, Carlo Casati, Aldo Pozzi e Iosve Aiazzi ‒, ogni domenica, a partire dal Campaniletto. Il capitolo successivo è dedicato alla prima grande impresa compiuta da Bonatti e da Luciano Ghigo nel 1951: la scalata della parete Est del Grand Capucin. L’autore racconta anche i tentativi falliti insieme a Barzaghi e a Ghigo, descrivendo la seconda prova come «una penosa fuga verso l’alto per sopravvivere alla disidratazione» (p. 15). Il terzo approccio, nuovamente con Ghigo, è vincente, sebbene le condizioni metereologiche siano avverse. Segue il paragrafo prolettico Sul Grand Capucin, venticinque anni dopo, in cui Bonatti racconta di aver scalato nuovamente la cima, passando per la sua via, nel giugno 1976. A distanza di quindici anni, trova sulla parete Est dei chiodi ad espansione e commenta: «questo genere di agganci, la cui applicazione richiede la perforazione della roccia, è veramente ingiustificabile e squalificante. […]. Resta allora da capire il perché di tanta profanazione, spregiudicatezza e cattivo gusto su una parete così» (p. 22). Ciò che qui interessa, infatti, è che l’autore fornisca una sorta di spiegazione al ritiro dall’alpinismo estremo: «Perché così mi piaceva fare essendo io libero di farlo. Ma fu anche per una questione di principio, o meglio, di rifiuto al dilagante alpinismo cosiddetto d’avanguardia di quel tempo, ridotto nella maggioranza dei casi a scadente competizione di intenti e di mezzi, competizione in cui la crescente mediocrità di chi l’accetta è l’elemento fertilizzante» (pp. 20-21). Segue un’aspra polemica ‒ riportante citazioni da periodici specializzati e da volumi dedicati all’alpinismo ‒ nei confronti di Luigi Ghedina e Lino Lacedelli che dichiarano ‒ mentendo, secondo Bonatti, Robert Paragot e Lucien Berardini ‒ di aver ripetuto la via Bonatti, nell’agosto del 1951, in meno di ventiquattro ore. Nel capitolo successivo, l’autore racconta una serie di ascensioni invernali, compiute con Carlo Mauri nel 1952, delle pareti Nord delle Cime di Lavaredo. Dopodiché, ampio spazio è riservato alla vicenda del K2 del 1954, vale a dire la conquista della seconda cima più alta del mondo, in seguito a una spedizione nazionale italiana guidata da Ardito Desio e per la quale viene convocato anche un giovane di soli ventitré anni: Walter Bonatti. Il bilancio che l’autore ricava da tale esperienza, di cui racconta i dettagli dal 28 al 31 luglio ‒ con particolare accuratezza per quanto riguarda gli accordi presi la notte del 29 con Lacedelli e Compagnoni circa la posizione del campo per l’indomani ‒, è «un grosso fardello di esperienze personali negative, direi fin troppo crude per i miei giovani anni» (p. 44). Ricche di tensione risultano le pagine che ricostruiscono lo stano d’animo e le condizioni fisiche di Bonatti e Mahdi, intenti a portare le bombole d’ossigeno a Lacedelli e Compagnoni che, per tutta risposta, nonostante non rispettino gli accordi evitano perfino di andare incontro ai due compagni o di mostrare la loro esatta posizione. Costretti a bivaccare senza tenda a 8100 m s.l.m., sotto una tormenta, Bonatti e Mahdi devono affrontare una notte nella cosiddetta “zona della morte” e la loro disperazione viene descritta dall’autore con pathos. Il paragrafo In margine all’impresa del K2 viene scritto e aggiunto in questa riedizione del 1983: contiene la trascrizione dell’atto di querela per diffamazione nei confronti dell’autore di un «calunnioso servizio giornalistico» (p. 64) e del direttore della «Nuova Gazzetta del Popolo della domenica»; delle dichiarazioni del ministro D’Acunzo, responsabile dell’inchiesta; la trascrizione di un passo tratto dal volume Uomini sul K2 di Compagnoni; e il commento sferzante ma circostanziato di Bonatti che confuta le dichiarazioni di Lacedelli, di Compagnoni, di Desio, del giornalista Giglio, la ricostruzione inesatta di Gogna e Messner e la mappa lacunosa dell’Istituto Geografico Militare di Firenze. Seguono capitoli dedicati all’ascensione solitaria del pilastro Sud-ovest del Dru del 1955, dopo tre tentativi falliti; alla traversata sci-alpinistica delle Alpi compiuta nel 1956 in sessantasei giorni con Luigi De Matteis, Alfredo Guy e Lorenzo Longo; al tentativo di ascensione al Monte Bianco per la via della Poire, il giorno di Natale del 1956, con Silvano Gheser, durante cui muoiono due alpinisti incontrati sul luogo, Jean Vincendon e François Henry; alla scalata del Bianco per la via Poire nel 1957 con Marcello Bareux e a un viaggio nella Cordillera Patagonica del 1958. Seguono le intense pagine che raccontano la conquista del Gasherbrum IV ‒ «nella sua conquista ho riposto il simbolo e il trionfo della mia fede» (p. 147) ‒ con Riccardo Cassin, Beppe De Francesch, Toni Gobbi, Fosco Maraini, Carlo Mauri, Giuseppe Oberto e Donato Zeni, coadiuvati da ben 480 portatori assoldati a Skardu. Le ultime pagine sono riservate alla prima ascensione del Pilastro Rosso di Brouillard nel 1959 ‒ che Bonatti così commenta: «non avrei mai intrapreso la scalata del Pilastro Rosso se avessi saputo che mi avrebbe riservato un’esperienza quasi tragica; però neppure l’avrei fatta se lo stesso Pilastro non fosse esistito così com’è, bello e misterioso nel suo fascino. Potrebbe sembrare strano, ma è proprio su questa apparente contraddizione che si regge l’alpinismo tradizionale» (p. 155) ‒ e all’ascensione del Rondoy Nord, nel gruppo andino di Huayhuash. La conclusione asciutta ma sentita è una commemorazione di Andrea Oggioni, amico e compagno di numerose scalate, morto per sfinimento nel 1961 durante il tentativo di ascensione del Pilone Centrale del Monte Bianco.

La prosa di Bonatti è chiara, analitica, scorrevole, dal lessico accessibile e dalla sintassi prevalentemente paratattica. L’autore si sofferma sui passaggi salienti delle ascensioni effettuate e riporta anche le condizioni metereologiche, trasmettendo al lettore, inoltre, emozioni e riflessioni. Scala utilizzando chiodi, staffe, martelli, moschettoni, cunei di legno e corde dapprima di canapa, poi di nylon e di seta. Il senso del suo alpinismo è manifesto durante l’intera narrazione autobiografica, ma è in prevalenza nei primi capitoli che chiarisce la sua visione. Innanzitutto, l’ascensione è per lui un «confronto serrato tra uomo e natura» (p. 14), le cui «componenti essenziali» (p. 26) sono il «mistero e [il] senso dell’impossibile […] mancando le quali un’impresa si riduce a un semplice esercizio atletico» (p. 26). In secondo luogo, Bonatti avverte «l’intima gioia che si prova dominando le proprie debolezze nella lotta che impegna ai limiti delle possibilità» (p. 11) e prova, infine, «anche la soddisfazione di riuscire a passare là dove altri ripiegavano» (Ibidem).

 

[Clementina Greco, 24 ottobre 2025]

Ultimo aggiornamento

13.11.2025

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