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Maraini Fosco (1912-2004)

Nasce a Firenze nel 1912 dallo scultore Antonio Maraini e dalla scrittrice Yoï Crosse. Nel 1934 si imbarca sul veliero Amerigo Vespucci in qualità di insegnante di inglese per la scuola di addestramento degli ufficiali della marina militare italiana, avendo così modo di visitare l’Anatolia e alcuni luoghi dell’Africa. L’anno successivo sposa Topazia Alliata di Salaparuta ‒ pittrice, scrittrice e gallerista ‒ con cui ha le tre figlie Dacia, Yuki e Toni. Dopo essersi laureato in Scienze naturali e antropologiche presso l’Università degli Studi di Firenze, Maraini parte nel 1937 per il Tibet a seguito dell’orientalista Giuseppe Tucci. Dopodiché si trasferisce in Giappone come lettore di lingua italiana per l’Università ma, in seguito al rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò, viene internato in un campo di concentramento a Nagoya con la sua famiglia. Dopo la Liberazione, torna in Italia, dove diventa docente di lingua e letteratura giapponese per l’Università degli Studi di Firenze. Nel 1948 torna in Tibet con Tucci, mentre nel 1958 partecipa alla spedizione al Gasherbrum IV guidata da Riccardo Cassin seguita, nel 1959, da quella al Saraghrar Peak, guidata da Franco Alletto e da Paolo Consiglio. Muore nel 2004. Oltre alle già citate spedizioni, Maraini compie numerose ascensioni nelle Dolomiti con Emilio Comici e Tita Piaz. Tra le variegate pubblicazioni, scrive Guida all’Abetone per lo sciatore, Firenze, Stazione e interprovinciale di soggiorno e turismo dell’Abetone-Sezione fiorentina del CAI, 1934; Dren-Giong. Appunti di un viaggio nell’Imàlaia, Firenze, Vallecchi, 1939; Canti degli alpinisti italiani, Tokio, Edizione ufficio stampa, 1942; Lontano Tibet, Tokyo, Shunchōkai, 1942; Segreto Tibet, Bari, Leonardo Da Vinci, 1951; Ore giapponesi, Bari, Leonardo Da Vinci, 1957; Una spedizione alle montagne del Karakorùm, Bari, Leonardo Da Vinci, 1959; L’isola delle pescatrici, Bari, Leonardo Da Vinci, 1961; Gasherbrum 4°: Baltoro, Karakorùm (Pakistan), Bari, Leonardo Da Vinci, 1962; Paropàmiso. Storie di popoli e culture, di montagne e divinità, Bari, Leonardo Da Vinci, 1963; Le fànfole, Bari, De Donato, 1966; L’esotico inverso: Cina e Giappone guardano l’Europa, Firenze, Ente Autonomo del Teatro Comunale, 1971; Tascoguida per lo sciatore in Giappone: con particolare riguardo all’Hokkaido, Ivrea, Priuli & Verlucca, 1971; Incontro con l’Asia, Bari, De Donato, 1973; Giappone e Corea, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1978; Eminentemente comparabili. Giappone e Tibet nei secoli 7. e 8. della nostra era, Firenze, Aistugia, 1985; Prima della tempesta: Tibet 1937 e 1948, Arcidosso, Shang-shung, 1990; Tibet e paesi himalayani. Immagini oggetti testimonianze, Firenze, Pontercorboli, 1991; Il popolo dell’alga e dell’orso. Tra gli Ainu, i pellerossa del Giappone, Milano, Editoriale Mondadori, 1992; Il nuvolario. Principi di nubignosia, Roma, Semar, 1995; Il richiamo della foresta: la natura primordiale del Giappone, Milano, Editoriale Mondadori, 1995; L’àgape celeste: i riti di consacrazione del sovrano giapponese, Firenze, MCS, 1995; Le stagioni dell’Hokkaido, Milano, Editoriale Mondadori, 1996; Gli ultimi pagani, Como, Red, 1997; Il nuvolario, Venezia, Marsilio, 1998; Toscana all’aria aperta ieri e oggi, con Gianfranco Bracci, Firenze, Natura Arte, 1999.

 

Titolo: Dren-Giong. Appunti d’un viaggio nell’Imàlaia

Luogo di edizione: Firenze

Casa editrice: Vallecchi

Anno di pubblicazione: 1939

Edizione di riferimento: Dren-Giong. Appunti d’un viaggio nell’Imàlaia, Milano, Corbaccio, 2019.

 

Il fototesto, comprendente dieci capitoli e quattro appendici, è un caratterizzato dalla presenza di trentanove tavole fotografiche intratestuali in bianco e nero. Nel corso dell’introduzione, Maraini racconta di essersi trovato a Gangtòk, nell’ottobre del 1937, dopo aver effettuato una serie di esplorazioni, di studi e di esperienze nell’area tibetana con Giuseppe Tucci, e di essersi diviso da quest’ultimo per compiere «un pellegrinaggio […] ai monti più alti della Terra» (p. 9) nella zona del Sikkim, che i tibetani chiamano Dren-Giong, cioè “terra dei frutti”. La compagnia di Maraini è composta anche da alcuni portatori, un servo e Drolmà, un’affettuosa cagnolina. L’autore avverte il lettore di non avere «la minima pretesa di fare della scienza» (p. 10) e di voler comunicare, invece, «le emozioni vissute» (Ibidem), essendo «un innamorato della natura» (Ibidem). 

Dopo aver descritto il Sikkim sia dal punto di vista geografico che da quello antropologico, l’autore inizia a raccontare il suo viaggio: partendo da Gangtòk, che si trova a 1800 m s.l.m., deve scendere fino al villaggio di Dic-ciù, situato a 600 m s.l.m., dove deve sopportare l’afa, la pioggia e le sanguisughe. Dopodiché, lui e il suo gruppo risalgono la valle del fiume Tista da cui riescono a vedere il monte Cancenzongà, che «scintilla libero nel sole, coronato di nubi abbaglianti, come un castello incantato di marmoree sostanze imperiture» (p. 72), e il Pandim. Stabilito il campo a Samdòng, ‒ a un palo della tenda appunta una foto della figlia Dacia, mentre al tirante anteriore una bandiera tricolore ‒ Maraini compie l’ascensione del Donchia-là con Drolmà utilizzando anche gli sci. In seguito, è la volta di Samdong-rì, di Sebu-là, da cui può ammirare «un mondo aspro e sublime» (p. 155), di Lugnac-là e di Cang-cen-dzö-nga, comunemente noto come Kangchenjunga, per poi accomiatarsi dall’affiatata compagnia.

La prosa di Maraini è elegante e suggerisce alla mente del lettore una lunga serie di immagini sublimi. Nonostante sia caratterizzato da una successione di sequenze descrittive e riflessive, questo compendio di narrazioni ascensionali è godibile e scorrevole. L’autore usa corde e chiodi mentre, soprattutto in discesa, utilizza gli sci. Dal racconto delle sue ascensioni, emerge come Maraini cerchi, tra queste imponenti vette himalayane, la «vuotezza di contenuto umano accompagnata da una […] pienezza di realtà fisica» (p. 128). Nell’ottavo capitolo, l’autore dedica alcune pagine alla riflessione sul senso dell’alpinismo e, dopo aver confutato una serie di spiegazioni fornite da altri alpinisti, come il culto della bellezza, la ricerca di perfezionamento dello spirito ecc., dichiara: «è tutta retorica quella che circola: la montagna non ha alcuna giustificazione. Eppure chi “ha capito” sa che essa ha un fascino a cui è impossibile resistere» (p. 159) e aggiunge: «Qual è dunque il suo segreto? Io credo che dev’essere appunto questa gioia di violare, percorrendoli, luoghi che non sono fatti per l’uomo, questo inerpicarsi su per muraglie da tarantole, su per spigoli da corvi e guglie da aquile e falchi. […]. L’alpinismo è anzitutto una questione spirituale […] è un combattimento senza nemici, un combattimento infine ove anche le vittorie più belle non sono macchiate dal dolore causato ad un vinto» (Ibidem).

 

Titolo: Paropàmiso. Storie di popoli e culture, di montagne e divinità

Luogo di edizione: Bari

Casa editrice: Leonardo Da Vinci

Anno di pubblicazione: 1963

Edizione di riferimento: Paropàmiso. Storie di popoli e culture, di montagne e divinità, Milano, Mondadori, 2003.

 

Il corposo récit d’ascension è costituito da cinque sezioni, suddivise a loro volta in capitoli, da un cospicuo inserto iconografico ‒ composto da centoquarantanove fotografie riguardanti la spedizione e non solo ‒, da otto appendici e da una bibliografia.  Fin dalla prefazione, Maraini chiarisce il significato del titolo che «è il nome che gli autori classici davano alle montagne, tra Sogdiana, Battria e Gandhara, traversate da Alessandro Magno e dai suoi nella memorabile discesa in India, nel 326 a.C.» (p. 7), derivante da un termine sanscrito che è traducibile in italiano con: «“al di là (delle montagne) più alte (del volo) dell’aquila”» (Ibidem).  Il volume racconta, nello specifico, la spedizione alpinistica e scientifica organizzata dalla sezione romana del CAI nel 1959 con lo scopo di scalare l’inviolato Picco Saraghrar, appartenente alla catena dell’Hindu-Kush ‒ cioè al Paropàmiso ‒ tra Pakistan e Afghanistan. I componenti della spedizione sono Paolo Consiglio, Franco Alletto, Giancarlo Castelli, Betto Pinelli, Enrico Leone, Franco Lamberti, Silvio Jovane e Fosco Maraini. Quest’ultimo chiarisce che il viaggio «non fu solo spostamento di corpi nello spazio, ma, per tutti, vivissima esperienza interiore» (p. 8). Nella prefazione alla seconda edizione, infatti, l’autore spiega che l’intento del libro è quello di «render conto di queste due realtà della spedizione, che per noi furono importantissime: l’itinerarium mentis in naturam, e l’itinerarium mentis in doctrinam» (p. 10).  Il volume si apre con il racconto del lungo viaggio da Karachi ‒ descritta come uno «smisurato ribollire di uomini, animali, veicoli, cose, luci, frutta, scritte […] [un] luna-park regale di palazzi e catapecchie» (p. 22) ‒ a Peshawar, dove il gruppo incontra Shapur Kahn, l’ufficiale di collegamento, e Mulai Jan, il capocarovana. Trovandosi a contatto con una società completamente differente da quella occidentale, riflette: «I viaggi possibili sul pianeta Terra sono di due specie. […]. Ci sono quelli che si svolgono dentro i confini d’una civiltà, e ci sono quelli che ci portano entro i confini di altre civiltà. Quelli che non toccano il muro d’idee, e quelli che lo scavalcano. […]. Questo è un viaggio della seconda specie» (p. 39). In questa sezione, si sottolinea la presenza di un lungo capitolo, suddiviso in paragrafi, dedicato a informazioni e considerazioni circa l’islam e la sharia.  La seconda parte del volume dà conto del rocambolesco viaggio da Peshawar al principato di Chitral, attraverso il Passo Malakand e il Passo Lowarai. Di località in località, Maraini si sofferma sulla politica, sulla religione sulla società, sulle usanze, sulla mentalità e, in generale, su vari aspetti antropologici che dicono molto della popolazione dell’area geografica indiana di quel periodo. È interessante, in tal senso, la sua riflessione sull’incontro tra civiltà così diverse: «Via via che ci allontanavamo dai paesaggi e dalle compagnie consuete, via via che si stiravano e rompevano gli ormeggi con le terre e la società d’origine, ci sentivamo sempre più isolati; d’altra parte, proprio per questo, ci conoscevamo meglio e ci sentivamo più uniti. Eravamo come degli ulissidi sopra una zattera. […] Allora gli incontri e le conversazioni con genti d’una civiltà nuova ed incommensurabile […] portavano fuori, in maniera spesso violenta e drammatica, grandi differenze tra i nostri cosmi interiori. Eppure […] questa continua indagine […] costituì l’aspetto più vero, più profondo, più proficuo del nostro viaggio» (p. 212). Una volta giunti al forte di Ziarat, Maraini e compagni si intrattengono a parlare di alpinismo con il maggiore Mahsud che vuole andare più in profondità rispetto all’«argomento sportivo, [al]l’idea di primato, [al]l’idea di gara tra le nazioni (i norvegesi sono stati sul Tirich Mir, gli americani sull’Istor-o-nal)» (p. 217) per comprendere le motivazioni più sotterranee. L’autore, dopo averci riflettuto, risponde: «Mi crede se le dico che la radice ultima delle nostre azioni, in questo caso, è il desiderio di sapere, di conoscere la creazione di Allah in ogni suo aspetto? Poi questo desiderio e questa fame ‒ così tipici dell’Occidente ‒ sono confluiti in uno sport codificato e ritualizzato qual è l’alpinismo. Risultato? Queste spedizioni alle montagne più alte e remote della terra…» (p. 218). Il maggiore, a questo punto, ribatte che questa sete di conoscenza degli occidentali non serve «per contemplare, ma per dominare» (Ibidem).  Nella terza parte, Maraini racconta il faticoso spostamento ‒ tra caldo e sete, tra problemi igienici e discussioni con i portatori ‒ da Chitral al campo base, spostando ben 170 colli, caricati su numerosi asinelli, di materiale necessario per l’ascensione. Superata la località di Washich, al gruppo si uniscono quattro shikari, ovverosia dei cacciatori di stambecchi che conoscono a menadito le montagne della zona, chiamate da Maraini e Pinelli «Dolomiti di merda» (p. 308) per le loro aspre guglie e i loro speroni di colore giallastro.  In seguito, scalano il Passo Dukadak, scendono per i ghiacciai Pachhalkush, Hushko e Niroghi. La quarta sezione è quella che, effettivamente, racconta l’ascensione del Picco Saraghrar a partire dal campo base, descritto da Maraini come «la capitale d’un minuscolo stato umano nella natura selvaggia» (p. 327). Il 24 luglio lui, Consiglio, Pinelli e Jovane partono per una ricognizione e arrivano in cima allo sperone tra i ghiacci Sorlawi e Roma, da cui riescono a individuare tre possibili vie di scalata. Dopo giorni e giorni di perlustrazioni, il gruppo predispone il primo campo, collocato a ben 5100 metri d’altezza, per poi piazzare il secondo a circa 5600 metri, su iniziativa di Leone, Jovane e Pinelli. A questo punto, Castelli e Pinelli partono alla volta della Torre di Ghiaccio, mentre l’autore resta più indietro soprattutto a causa della dissenteria. In questa fase, Maraini prende spesso in prestito le parole appuntate sui taccuini personali dai suoi compagni di cordata, certo di offrire in tal modo un quadro più completo di un’operazione tanto complessa. Tra valanghe, malanni e difficoltà tecniche, l’autore scrive: «Per chi non l’ha provato è difficile immaginarsi quanto siano dure, bestiali, queste lotte a corpo a corpo con le più grandi montagne del mondo affrontate a migliaia di chilometri da casa» (p. 379). A causa dell’età e dei disturbi intestinali, Maraini rinuncia alla vetta e giunge solo al campo III ma, da quanto emerge dal testo, è felice di poter essere utile per gli altri che conquistano la cima anche grazie a lui. Via radio, l’autore invita ‒ invano ‒ Franco Alletto a condurre in vetta il portatore pakistano Pahlawan perché «sarebbe una grande vittoria morale» (p. 399). Dopo che Consiglio, Alletto, Castelli e Pinelli raggiungono la cima, inizia la lenta operazione di discesa e di smantellamento dei campi, riguardo a cui Maraini scrive: «Salutare un campo costituiva sempre un attimo di sottile commozione. Ce ne andavamo. Tutto tornava come prima. Restava qualche scatoletta vuota, qualche pezzo di latta, ma già s’intravedeva l’aspetto eterno delle cose» (p. 426). Nella quinta parte del volume, Maraini e gli altri fanno visita ai kafir, le popolazioni montane pagane che abitano il Chitral. 

Seguono otto cartine geografiche; un’appendice sul Chitral; un’altra sulla cronistoria alpinistica nella zona con contributi di Paolo Consiglio e Gilberto Merlante; un’appendice riguardante le biografie dei componenti della spedizione; un’altra sui dati essenziali dell’impresa e, infine, la bibliografia. Il volume si conclude, curiosamente, con un breve capitolo intitolato emblematicamente Le torri di New York: cercando di capire, in cui Maraini riporta le sue riflessioni circa il drammatico evento terroristico di matrice islamica dell’11 settembre 2001. La scrittura di Maraini è elegante, asciutta ed estremamente comunicativa. Spesso l’autore paragona i paesaggi, la flora e la fauna del luogo con quelli italiani, dando modo al lettore di immaginare più facilmente gli elementi descritti. Talvolta cita e commenta dei passi tratti dai diari di viaggio di Paolo Consiglio e di Betto Pinelli, componendo una sorta di mosaico di punti di vista. Durante le sue ascensioni, Maraini usa piccozze, corde e ramponi. Le fotografie presenti nel volume, raggruppate in un inserto collocato nella quinta parte, sono numerate e dotate di didascalia esplicativa. Bisogna senz’altro rilevare come le foto in bianco e nero siano artisticamente significative per luce e composizione.

 

[Clementina Greco, 21 febbraio 2025]

Ultimo aggiornamento

15.11.2025

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